Ci vuole un Paese perché ‘appartenersi’ è una cosa seria. Sentirsi l’uno al fianco dell’altra, vicini di casa, di strada, nelle abitudini, nel pensiero, nel vortice di quei mille mila soprannomi affibbiati a quella o a quell’altra famiglia.
Vicini perché lontano non esiste in Paese, perché al fruttivendolo mentre compri le mele parli di politica, alla posta mentre sei in fila per pagare le bollette parli del matrimonio della ‘cummare’, perché l’io si ferma sempre al tu e tu in un modo o nell’altro di quell’io sei parte, non fosse altro per tutte le volte che quella storia umana la nonna te l’ha servita a tavola con l’immancabile cantilena “sai ci ete? La figlia del fratello della moglie te lu stampagna case”.
“Che senso ha se solo tu ti salvi?” si chiedeva Neiwiller. Ecco, ci vuole un Paese perché nei Paesi le persone si salvano insieme o in ogni caso alla fine qualcuno una mano te la dà.
Ci vuole un Paese perché la politica da sola non ce la fa, perché il mistero, che è muto, da solo diventa sordo.